Dedicato alla nostra Costituzione
Era una notte di tempesta. Lampi
squarciavano le tenebre illuminando di luce livida le valli, tuoni rotolavano
rombando dalle montagne, una pioggia violenta sferzava i campi scavando solchi,
il vento urlava fra i vicoli facendo rabbrividire i piccoli nei loro letti, il
mare mugghiava avventandosi sugli scogli.
Ma la Città dormiva. Solo di
tanto in tanto un fremito, memore di antiche offese, increspava il suo sonno,
lasciando sfuggire dal petto un gemito lieve. Nella sua lunga esistenza, la
Città aveva sofferto terribili sconvolgimenti. Fiumi di lava incandescente
avevano travolto la vita lasciando ceneri fumanti, aghi di gelo l'avevano
trafitta negli inverni inclementi, tradimenti e inganni avevano violato la sua
innocenza, né il tempo aveva potuto lenire l' orrore della sciagura più grande:
uomini avevano ucciso altri uomini, fratelli contro fratelli, e il loro sangue
per giorni aveva arrossato i campi, dove non crebbe più il grano. Eppure, ogni
volta la Città aveva saputo ricucire le ferite della sua anima, ritrovando la
speranza e la volontà di riannodare la vita e, forse, fu proprio la fiducia
nella sua forza a renderla ignara del nuovo pericolo.
Un rombo, più potente della
tempesta, la strappò al sonno rendendola subito vigile. Le parve di riconoscere
il suono ritmico di centinaia di zoccoli che colpivano con impeto il suolo.
Frugò con ansia l'oscurità e li vide: destrieri lucidi di pioggia e di sudore
lanciati al galoppo, le froge fumanti, la corsa sicura dei muscoli possenti, le
teste magnifiche che sfidavano il vento. Vide gli uomini che li cavalcavano e
sotto i corpetti di cavalieri indovinò cuori di pirati.
Atterrita, dall'alto delle mura
antiche, li seguì dirigersi alle Porte urlando selvagge grida di guerra, mentre
la pianura echeggiava di gutturali richiami. Li vide entrare spavaldi e
arrestare la corsa sui disegni delicati del marmo della piazza, passare con
arroganza di conquistatori fra le esili colonne degli edifici, sguazzare
sguaiati nelle acque delle fontane, che l'arte di maestri eccelsi aveva
adornato di splendide statue.
Allora, dai sobborghi giunsero
tutti i pavidi che, forti della debolezza della Città, chiedevano agli invasori
di divenire loro servi; qualcuno, nell'euforia della vittoria, fu nominato
scudiero, ma i più finirono a pulire le latrine. E se ne sentirono grati. Anche
l'accolita di soli uomini che, nonostante le vesti strane e le strane
cerimonie, la Città aveva rispettato, aprirono le porte e si unirono ai
vincitori.
Impotente, sentì i nuovi padroni
gozzovigliare sulle tavole coperte di lino, fra cristalli scintillanti e
argenti lucenti, li vide lordare i tappeti di seta dai delicati colori e
crollare infine, ebbri di vino e di potere, sui letti d'ebano.
Quando quella interminabile notte
illividì nell'alba del nuovo giorno, insonne e attanagliata da un funesto
presagio, li osservò radunarsi tutti
nella piazza grande e marciare verso il tempio maestoso che custodiva La
Legge Della Città e capì che l'atto più empio che nessuno aveva mai osato stava
per compiersi.
Non ebbe bisogno di guardare, fu
il suo cuore a sentire il colpo che mandava in frantumi il prezioso cristallo della
teca. Visse l'eternità del gesto: la mano sacrilega che si abbassava al fianco
dopo lo scempio, le schegge splendenti di mille riflessi che compivano tutta
intera la loro parabola fino a posarsi inerti sul pavimento, il tempo che si
arrestava.
Di colpo, la Legge fu nuda e
indifesa.
Nei giorni a seguire, riconobbe
che fu proprio quella muta invocazione di protezione a provocare l'esplosione
di ribellione, il grido di rifiuto che urlava al mondo tutto il suo sdegno e
che presto si propagò nelle strade, nelle piazze e nelle valli, acquisendo
sempre più vigore e già trasformandosi in grido di liberazione.
Cara, vecchia Città, quante volte
aveva opposto alla violenza la sua saggezza, la sua passione, il suo coraggio,
uscendone vincitrice! "lo sarò anche stavolta" si disse fiduciosa.
Scrutò attenta l'orizzonte. Un riverbero lontano, forme indistinte in
movimento, poi massa ondeggiante e infine eccoli, li vide, cittadine e
cittadini, già alle Porte, i volti seri, gli stendardi al vento.
Felice, con rinvigorita energia,
raggiunse veloce le sue stanze, indossò la veste più bella e si avviò sorridente
ad accogliere i suoi abitanti, canticchiando fra sé una canzone della sua
gioventù "Una mattina mi son svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella
ciao ciao ciao...".
Gia`pubblicato sulla rivista Colorcity nel
dicembre 2009, ho apportato qualche modifica per renderlo attuale.
Anna Maria Miceli